Nella casa di Giuseppe Baldi
Nella casa di Giuseppe Baldi, in fondo a una strada che è poco più di un sentiero
asfaltato tra le querce, in quella terra di nessuno in cui la periferia lascia il posto alla
campagna, c’è, nell’angolo del divano e delle poltrone, una stufa Franklin, quella
specie di caminetto mobile inventato da uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, oltre
che del parafulmine, delle lenti bifocali e dell’ora legale. Ma in realtà il centro
dell’attenzione, nell’angolo della meditazione o del riposo, della lettura o del
discorrere, è una pianta verde. Un’enorme felce arborea, il cui tronco si leva sino al
soffitto, la dove scende come fosse un lampadario verde la cascata delle fronde. Se
per molti di noi la vita è fatta di svolte lente o brusche, il destino di Giuseppe Baldi è
una linea diritta come la stradina che porta a casa sua. Perché la casa è quella in cui è
cresciuto, un monastero del ‘500 diventato residenza dei bisnonni, dei nonni, dei
genitori. Il giardino è quello in cui Giuseppe ha giocato da bambino, gli stessi alberi su
cui si arrampicava, le piante quelle scelte dal padre, la costruzione in cui Giuseppe
vive è quella che un tempo serviva da deposito delle granaglie. Un destino di custode
del tempo che Giuseppe ha assecondato e cercato, scegliendo di studiare Agraria, e
inventandosi un mestiere che trent’anni fa quasi non esisteva: il paesaggista, che
ancora oggi in Italia può dare l’idea di un pittore, e così si usa piuttosto landscape
designer. Disegna giardini, Giuseppe Baldi, in Italia e fuori. Un lavoro complesso – sta
seguendo da quattro anni una masseria in Puglia- che ha nel paesaggista il visionario
e il tecnico, ma deve contare sul vivaista e sullo scalpellino, e fare i conti con la terra e
il clima, con l’ambiente tutto attorno e la residenza. Gli ho chiesto che cosa rende
riconoscibile un suo giardino, dovessi giocare a mosca cieca tra i lavori che ha portato
a termine, dalla Grecia a Reggio Emilia. “L’assenza di una firma. L’umiltà, la modestia
di capire di capire il luogo e tirarne fuori l’anima nascosta”. Si vede che è uno che ama
il suo lavoro, che gli piace misurarsi con i progetti più diversi, un terrazzo di città o un
giardino sui colli toscani. Che affronta la sfida più difficile, quella della semplicità, ma
anche che è consapevole dei limiti, dei confini della creazione: “il giardino è un teatro,
il paesaggio tutto attorno è un’altra cosa, che oggi governiamo male, che non entra
nei piani urbanistici”. Un paesaggio disegnato dall’uomo su cui l’uomo di oggi fa
scarabocchi, un mondo in cui il ritorno a casa è il ritorno in un fortino quieto. Senza
armistizio, però. Quando torna a casa, Giuseppe si occupa dell’azienda agricola che è
sopravvissuta agli anni. Non più vacche e non più viti, ma cereali, girasoli, e presto il
ritorno della canapa, magari riscoprendo le vecchie fosse per la macerazione. Si è
costruito da solo il piano cucina –cemento levigato, ingredienti scelti dopo lunga
ricerca- ha riportato alla muri storti e antiche porte, tinteggi sovrapposti e vecchie
travi, e adesso progetta si spostare nel giardino l’orto: “è bello guardare l’orto,
mangiare d’estate accanto all’orto, sedersi a guardarlo cambiare”.
Di Toni Capuozzo